Filosofo della rivoluzione e profeta del futuro
Il filosofo e pioniere della teoria critica, Herbert Marcuse, è stato considerato a tutti gli effetti il "filosofo di casa" del movimento del 1968. La sua opera più celebre, "L'uomo a una dimensione", pubblicata in lingua tedesca nel 1967, divenne una bibbia per molti studenti, che ne fecero una lettura quasi religiosa. Convinto che una società migliore e libera fosse possibile, Marcuse non vacillò mai nella sua fede, neanche di fronte alle avversità. "Oggi non c'è probabilmente nulla che non possa essere realizzato, a patto che gli uomini organizzino le loro società in modo razionale", affermò il filosofo in un'intervista al Bayerischer Rundfunk nel 1976.
Marcuse abbandonò l'idea classica marxista di una rivoluzione proletaria. Secondo lui, nei paesi industriali avanzati il proletariato, come inteso da Marx, non esisteva più. "Il capitalismo ha creato condizioni di vita che, pur con tutta la loro sfruttamento e disumanizzazione, hanno comunque garantito un livello di vita per la maggioranza della popolazione che Marx, nel XIX secolo, non avrebbe potuto nemmeno immaginare", spiegò Marcuse. Per questo, il filosofo attribuiva il potere di cambiamento sociale non alla classe operaia, bensì ai gruppi emarginati della società, agli studenti e ai movimenti ambientalisti.
La natura stessa della rivoluzione sociale, secondo Marcuse, era destinata a cambiare. Seppur la soddisfazione dei bisogni materiali rimaneva una priorità, si poneva l'esigenza di valori che trascendevano il materiale. "Questo è ciò che la nuova sinistra intende essenzialmente quando parla di nuova qualità della vita", precisò Marcuse. "Una rivoluzione non dovrebbe mirare solo ad aumentare la produttività o a modificare i rapporti di proprietà", ma anche a perseguire obiettivi non materiali: "Sviluppare e soddisfare questi bisogni transmateriali. Vivere come piacere, nuova sensorialità, elaborazione di una nuova morale al di là della morale borghese".
Marcuse vide nei movimenti del '68 i semi di un simile cambiamento, pur non illudendosi che potessero portare a una vera e propria rivoluzione, per la mancanza di una massa critica rivoluzionaria. Tuttavia, riconobbe il loro valore: "Gli studenti, le donne, le minoranze nazionali e razziali oppresse erano in questo senso un'avanguardia, nel senso di anticipare future possibilità e obiettivi di cambiamenti radicali".
In definitiva, per Marcuse una società libera era realizzabile solo dopo l'eradicazione della povertà e della miseria in tutto il mondo. "Questo significa che la vera società socialista, nella sua prima fase, non sarà certo una società senza lavoro", sottolineò. "Ma il lavoro avrebbe un obiettivo ben definito: eliminare la povertà e la miseria in tutto il mondo. E solo allora potremmo immaginare queste nuove qualità della vita".
Definire tale visione utopica era, per Marcuse, "propaganda del sistema in essere". "Non credo che nessuno abbia mai potuto dimostrare che - non oggi, perché ci vorrebbero decenni di cambiamento - una società in cui il lavoro alienato non è più il contenuto della vita, in cui la povertà e la miseria sono eliminate su scala globale, sia un'utopia".
Di fronte a questa sfida, il filosofo marxista aveva il dovere di non sottovalutare il potere del sistema attuale e la violenza che poteva generare. A chi lottava per cambiare la società, Marcuse ammoniva: "Il rischio che correte è terribilmente alto. Ma ecco dei percorsi che potrebbero portare a fermare, o forse addirittura evitare, un nuovo fascismo".