RMS Laconia: una tragedia da non dimenticare
Le condizioni dei prigionieri italiani
I prigionieri di guerra italiani, circa 1800 in totale, erano tenuti in condizioni inaccettabili. Le stive erano sovraffollate, mal ventilate, e le condizioni igieniche erano pessime. I prigionieri ricevevano razioni minime di cibo e acqua e avevano poco spazio per muoversi. Quando il piroscafo inglese venne colpito a morte, molti di loro non ebbero alcuna possibilità di salvezza a causa delle porte chiuse e della confusione generale.
I prigionieri italiani e i guardiani polacchi
I prigionieri di guerra italiani a bordo, rinchiusi nelle stive, erano sorvegliati da circa 160 soldati polacchi. Questi guardiani avevano il compito di mantenere l'ordine tra i prigionieri e di impedire loro di fuggire. Secondo numerose testimonianze, i soldati polacchi non aprirono i cancelli delle prigioni. In alcuni casi, si racconta che, dopo aver chiuso i boccaporti delle stive, abbiano addirittura sparato ai prigionieri che cercavano di forzare le porte per fuggire e tentare di mettersi in salvo.
Una testimonianza diretta di un superstite italiano descrive così l'orrore di quei momenti: "Le stive si stavano riempiendo d'acqua e noi gridavamo disperati per essere liberati. Alcuni dei nostri compagni furono colpiti dai polacchi mentre cercavano di scappare. Era il caos, e molti di noi non avevano alcuna speranza di salvarsi. Il terrore che provavamo era indescrivibile. Sentivamo l'acqua salire e sapevamo che la nostra fine era vicina. Vedevamo i nostri compagni cadere, colpiti o annegati. Nessuno ci aprì le porte, nessuno ci diede una possibilità.
Un testimone diretto
Il sergente maggiore Pietro Pazzaglia (1910-1978), originario di Castiglione dei Pepoli (BO), nonché mio nonno paterno, si trovò ad affrontare in prima persona quella tragedia, in qualità di prigioniero di guerra (catturato durante la prima battaglia di El Alamein, in Egitto). Chiuso nelle stive della nave avvertì il frastuono e gli effetti devastanti del primo siluro. Dopo aver compreso che non ci sarebbe stato scampo, insieme ad altri militari riuscì a forzare i cancelli e ad evitare i carcerieri polacchi intenti a respingere i fuggitivi a colpi di pistola e con l'ausilio delle baionette. La situazione, però, continuò a peggiorare.
Dopo aver raggiunto su uno dei ponti della nave, con il Laconia già pericolosamente inclinato e ormai privo di lance di salvataggio, notò le prime scene di disperazione: passeggeri che si abbracciavano prima di lanciarsi in acqua e corpi che venivano risucchiati dai molinelli generati dal bastimento che si inabissava rapidamente dalla poppa. Mantenendo i nervi saldi, decise di non gettarsi subito in mare, così si diresse nelle cucine e cercò del cibo, in previsione di dover restare in acqua per molte ore e poter resistere al freddo dell'Atlantico.
Dopo essersi gettato in acqua fu costretto a guardare in faccia l'orrore: corpi mutilati, passeggeri annegati, naufraghi sbranati vivi dagli squali ed altre scene raccapriccianti. I membri inglesi e polacchi dell'equipaggio, già a bordo delle scialuppe di salvataggio ormai sovraffollate, colpivano in testa i disperati (perlopiù italiani) che tentavano di aggrapparsi ai bordi delle imbarcazioni e, nei casi più gravi, tagliavano loro le mani affinché non facessero colare a picco le lance già sovraffollate.
La sorte del sergente maggiore Pazzaglia, tuttavia, si dimostrò migliore rispetto a quella di molti altri. Dopo aver trovato un appiglio per restare a galla, restò per oltre 6 ore immerso in quelle acque gelide. Quando le sue forze vennero meno, si affidò a Sant'Antonio da Padova, al quale era devoto, e comprese che la sua disavventura sarebbe finita nel peggiore dei modi possibili. In quel momento avvertì un sussulto e venne miracolosamente tratto in salvo da una scialuppa governata da soldati inglesi o statunitensi che gli offrirono una tazza di tè.
L'operazione di soccorso e il bombardamento
Hartenstein
iniziò a raccogliere i superstiti a bordo dell'U-156 e lanciò zattere
di salvataggio. Il sottomarino tedesco venne presto affiancato da altri
U-Boot, l'U-506 e l'U-507, e dal sottomarino italiano Cappellini, per
assistere nelle operazioni di salvataggio. Nel frattempo, le navi
francesi Vichy Annamite e Gloire furono inviate per aiutare.
Tuttavia,
il 16 settembre, un aereo B-24 Liberator dell'aeronautica americana,
avvistato l'U-156 con i naufraghi a bordo e intorno, attaccò il
sottomarino nonostante i tentativi di Hartenstein di comunicare che era
impegnato in operazioni di soccorso. Questo attacco causò la dispersione
delle operazioni di salvataggio. Hartenstein fu costretto a immergersi e
abbandonare i naufraghi ancora in acqua.
Le conseguenze del naufragio
L'incidente causò la perdita di oltre 1600 vite umane, perlopiù soldati italiani. La tragica fine del Laconia e il
successivo attacco ai sottomarini tedeschi impegnati nel soccorso
portarono l'ammiraglio Karl Dönitz, comandante della sua flotta, ad emettere il cosiddetto "Laconia Order", che proibiva agli U-Boot di tentare il salvataggio dei naufraghi
delle navi affondate. La tragica fine del piroscafo inglese resta uno degli episodi più controversi della guerra
sottomarina nella Seconda Guerra Mondiale ed evidenzia tutta la brutalità del
conflitto.