Analisi su "L'uomo a una dimensione" (1964)
Continuare a porsi delle domande in modo critico, tentando (spesso invano) di ottenere delle risposte univoche è una primaria necessità umana, sostenuta anche dai tempi turbolenti che stiamo vivendo. La libertà individuale, nell’ambito di una società precostituita e “tecnologicamente avanzata” (come la definisce Marcuse), è un tema di grande attualità. Le “nuove tecnologie”, in particolar modo quelle informatiche e digitali, hanno avviato una imponente rivoluzione sociale senza però aver prima provveduto a preparare ed istruire, in alcun modo, milioni e milioni di fruitori che quotidianamente utilizzano i social network per comunicare.
In merito a tutto ciò, anche in relazione ai concetti fondanti del marketing tradizionale (e del mercato pubblicitario), “L’uomo a una dimensione” (1964), scritto dal filosofo tedesco Herbert Marcuse, offre una sintesi critica e rigorosa, quasi scientifica, sulla società capitalistica, individuandone la natura, gli istinti e le modalità di autoconservazione. Il risultato è un’analisi molto elaborata e scritta con dovizia e riferimenti, intrecciando la summa dei concetti filosofici hegeliani con la psicanalisi freudiana.
Marcuse, nel testo, sottolinea come l’uomo della società industriale avanzata sia un prodotto che risponde rigidamente ad una logica fortemente omologata, costruita secondo precise esigenze del sistema economico, politico e sociale. Questo complesso di strutture, spiegato in modo esaustivo con concetti ripetuti in modo quasi ossessivo dall’autore, viene definito “totalitario” perché impone ad ogni individuo (nato libero) una eteronomia eterodiretta ed introiettata che condanna l’esistenza umana all’abisso dell’unidimensionalità, a metà tra l’inedia e l’impotenza sociale.
Questa condizione, sostanzialmente imposta, comprime i bisogni primari, crea nuovi bisogni e riduce ogni aspirazione individuale e soggettiva dell’essere umano. In questa unica realtà unidimensionale, costruita sui consumi e sulla crescita accelerata, vengono convogliati l’esistenza, i desideri e le necessità umane. L’uomo di Marcuse non ha alcun cielo sopra di sé, vive e sopravvive in un ambiente “confortevole” da cui non desidera fuggire, il cui prezzo è quello della spersonalizzazione e della privazione di tutto ciò che esula dal concetto consumistico.
Marcuse chiama questo fenomeno “tolleranza repressiva”: in estrema sintesi, si tratta di un sistema ideato e gestito dalle “classi di potere” (politiche ed economiche) che estende le libertà individuali delle persone, ma soltanto in modo apparente, tramite corpose concessioni fittizie che non ledono minimamente gli interessi e gli obiettivi dell’ordine esistente precostituito e che, anzi, ne rafforzano il marcato conformismo. Ogni individuo, dunque, è libero di scegliere tra una vasta moltitudine di beni di consumo che ha a disposizione, con i quali è perlopiù in grado di soddisfare i propri bisogni, ma non è “libero” nel senso più profondo del termine, ovvero in quello filosofico. Ciò rappresenta una chiara dimostrazione di come ogni singolo individuo sia sempre soggetto al controllo e al dominio totale della società. I “bisogni” che conosciamo, infatti, vengono generati dallo stesso sistema capitalistico (e veicolati dalla pubblicità), ma agli occhi dei “consumatori” sembrano spontanei e concreti, frutto di un’evoluzione economica e sociale che sembra non avere fine.
L’istantanea di Marcuse, in sostanza, tende a certificare l’assunto secondo cui le democrazie non siano altro che espressioni e forme di una società moderna stratificata che promuove l’immobilismo politico, economico e culturale e blocca ogni speranza per un cambiamento futuro. In questa tipologia di società, l’uomo (definito, non a caso, “schiavo sublimato”) ha un ruolo estremamente marginale; si limita ad interpretare la controfigura di se stesso. L’incessante desiderio di sviluppo della nuova società industriale avanzata, orientata esclusivamente a perseguire il dominio tecnologico assoluto con l’unico fine del profitto, lo ha ridotto ad un automa senza alcuna voce in capitolo. In questo panorama sociale, il linguaggio burocratico e autoritario dell’amministrazione pubblica ha un compito predefinito e fondamentale, in quanto unificato e funzionale, ma anche volutamente antidialettico e antistorico.
“Il linguaggio non soltanto riflette il controllo della società - scrive Marcuse - ma diventa esso stesso uno strumento di controllo, anche là dove non trasmette ordini ma informazioni, dove non chiede obbedienza ma scelta, non sottomissione ma libertà. L’ordine si traduce in informazione. L’obbedienza diventa scelta. La sottomissione è libertà”. La comunicazione (e con essa il linguaggio), anche sui social network e più in generale sulla Rete, è una forma autoritaria di controllo, soprattutto quando la normale dialettica umana viene ridotta in forme linguistiche e simboli mediante la sostituzione delle immagini ai concetti. Senza il concetto, infatti, l’immagine abolisce la ricerca ed impone una scelta obbligata, privata di qualsiasi sfumatura critica, tra “verità” e “falsità”. Un esempio calzante è la trasformazione del linguaggio della politica in quello standard della pubblicità, dove tutto è pura ed autentica finzione.
L’uomo a una dimensione, in definitiva, è il ritratto senza trucco della classe borghese contemporanea, appagata dal benessere materiale ed impegnata a perseguire solo il proprio interesse privato, quasi completamente indifferente a ciò che avviene nel mondo ed impermeabile a qualsiasi istanza di cambiamento. Ebbene, pare che da quel lontano 1964 non sia cambiato molto, in quanto l’uomo di allora non è molto diverso dall’individuo contemporaneo che identifica la ragione con una realtà quotidiana alienata ed alienante.
Per l’uomo unidimensionale, in definitiva, non esistono altri modi di essere se non quello di appartenere a quel sistema illuminato entro il quale poter vivere e consumare. La tecnologia digitale che ci accompagna ogni giorno, del resto, ha la peculiarità di far apparire razionale ciò che razionale non è, può cancellare o inglobare il pensiero critico individuale e collettivo ed ha lo scopo di uniformare la società per renderla un universo virtuale in cui ogni individuo riesce ad identificarsi.
“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico”, scrive Marcuse per ribadire un concetto filosofico già espresso in passato: l’abuso della tecnologia e dei mezzi evoluti contiene i germi del soverchiamento dell’uomo sull’uomo. La libertà nella società moderna occidentale alla deriva, frutto di questa evidente distorsione distopica, viene trasformata in una “non-libertà”, proprio attraverso processi e meccanismi tesi a persuadere gli individui di vivere nell’esatto contrario, ovvero in una società che rispecchi fedelmente il concetto dell’alta libertà e dell’alta cultura, così come concepito dall’Illuminismo.
Anche le conclusioni di Marcuse su un eventuale “cambio di passo” futuro che sovverta lo stato attuale della cose, non sono affatto banali: sebbene il “popolo” non possa più essere considerato un protagonista del mutamento sociale, il suo substrato (composto da reietti, sfruttati, perseguitati, disoccupati e disabili) porta il seme del cambiamento e di una “rivoluzione” gentile. Insomma, l’unica speranza, secondo il filosofo tedesco, viene riposta in quelle categorie sociali che, per scelta libera o obbligata, non fanno parte del sistema e lo combattono (consapevolmente o meno) dall’esterno: gli emarginati.
In merito a tutto ciò, anche in relazione ai concetti fondanti del marketing tradizionale (e del mercato pubblicitario), “L’uomo a una dimensione” (1964), scritto dal filosofo tedesco Herbert Marcuse, offre una sintesi critica e rigorosa, quasi scientifica, sulla società capitalistica, individuandone la natura, gli istinti e le modalità di autoconservazione. Il risultato è un’analisi molto elaborata e scritta con dovizia e riferimenti, intrecciando la summa dei concetti filosofici hegeliani con la psicanalisi freudiana.
Marcuse, nel testo, sottolinea come l’uomo della società industriale avanzata sia un prodotto che risponde rigidamente ad una logica fortemente omologata, costruita secondo precise esigenze del sistema economico, politico e sociale. Questo complesso di strutture, spiegato in modo esaustivo con concetti ripetuti in modo quasi ossessivo dall’autore, viene definito “totalitario” perché impone ad ogni individuo (nato libero) una eteronomia eterodiretta ed introiettata che condanna l’esistenza umana all’abisso dell’unidimensionalità, a metà tra l’inedia e l’impotenza sociale.
Questa condizione, sostanzialmente imposta, comprime i bisogni primari, crea nuovi bisogni e riduce ogni aspirazione individuale e soggettiva dell’essere umano. In questa unica realtà unidimensionale, costruita sui consumi e sulla crescita accelerata, vengono convogliati l’esistenza, i desideri e le necessità umane. L’uomo di Marcuse non ha alcun cielo sopra di sé, vive e sopravvive in un ambiente “confortevole” da cui non desidera fuggire, il cui prezzo è quello della spersonalizzazione e della privazione di tutto ciò che esula dal concetto consumistico.
Marcuse chiama questo fenomeno “tolleranza repressiva”: in estrema sintesi, si tratta di un sistema ideato e gestito dalle “classi di potere” (politiche ed economiche) che estende le libertà individuali delle persone, ma soltanto in modo apparente, tramite corpose concessioni fittizie che non ledono minimamente gli interessi e gli obiettivi dell’ordine esistente precostituito e che, anzi, ne rafforzano il marcato conformismo. Ogni individuo, dunque, è libero di scegliere tra una vasta moltitudine di beni di consumo che ha a disposizione, con i quali è perlopiù in grado di soddisfare i propri bisogni, ma non è “libero” nel senso più profondo del termine, ovvero in quello filosofico. Ciò rappresenta una chiara dimostrazione di come ogni singolo individuo sia sempre soggetto al controllo e al dominio totale della società. I “bisogni” che conosciamo, infatti, vengono generati dallo stesso sistema capitalistico (e veicolati dalla pubblicità), ma agli occhi dei “consumatori” sembrano spontanei e concreti, frutto di un’evoluzione economica e sociale che sembra non avere fine.
L’istantanea di Marcuse, in sostanza, tende a certificare l’assunto secondo cui le democrazie non siano altro che espressioni e forme di una società moderna stratificata che promuove l’immobilismo politico, economico e culturale e blocca ogni speranza per un cambiamento futuro. In questa tipologia di società, l’uomo (definito, non a caso, “schiavo sublimato”) ha un ruolo estremamente marginale; si limita ad interpretare la controfigura di se stesso. L’incessante desiderio di sviluppo della nuova società industriale avanzata, orientata esclusivamente a perseguire il dominio tecnologico assoluto con l’unico fine del profitto, lo ha ridotto ad un automa senza alcuna voce in capitolo. In questo panorama sociale, il linguaggio burocratico e autoritario dell’amministrazione pubblica ha un compito predefinito e fondamentale, in quanto unificato e funzionale, ma anche volutamente antidialettico e antistorico.
“Il linguaggio non soltanto riflette il controllo della società - scrive Marcuse - ma diventa esso stesso uno strumento di controllo, anche là dove non trasmette ordini ma informazioni, dove non chiede obbedienza ma scelta, non sottomissione ma libertà. L’ordine si traduce in informazione. L’obbedienza diventa scelta. La sottomissione è libertà”. La comunicazione (e con essa il linguaggio), anche sui social network e più in generale sulla Rete, è una forma autoritaria di controllo, soprattutto quando la normale dialettica umana viene ridotta in forme linguistiche e simboli mediante la sostituzione delle immagini ai concetti. Senza il concetto, infatti, l’immagine abolisce la ricerca ed impone una scelta obbligata, privata di qualsiasi sfumatura critica, tra “verità” e “falsità”. Un esempio calzante è la trasformazione del linguaggio della politica in quello standard della pubblicità, dove tutto è pura ed autentica finzione.
L’uomo a una dimensione, in definitiva, è il ritratto senza trucco della classe borghese contemporanea, appagata dal benessere materiale ed impegnata a perseguire solo il proprio interesse privato, quasi completamente indifferente a ciò che avviene nel mondo ed impermeabile a qualsiasi istanza di cambiamento. Ebbene, pare che da quel lontano 1964 non sia cambiato molto, in quanto l’uomo di allora non è molto diverso dall’individuo contemporaneo che identifica la ragione con una realtà quotidiana alienata ed alienante.
Per l’uomo unidimensionale, in definitiva, non esistono altri modi di essere se non quello di appartenere a quel sistema illuminato entro il quale poter vivere e consumare. La tecnologia digitale che ci accompagna ogni giorno, del resto, ha la peculiarità di far apparire razionale ciò che razionale non è, può cancellare o inglobare il pensiero critico individuale e collettivo ed ha lo scopo di uniformare la società per renderla un universo virtuale in cui ogni individuo riesce ad identificarsi.
“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico”, scrive Marcuse per ribadire un concetto filosofico già espresso in passato: l’abuso della tecnologia e dei mezzi evoluti contiene i germi del soverchiamento dell’uomo sull’uomo. La libertà nella società moderna occidentale alla deriva, frutto di questa evidente distorsione distopica, viene trasformata in una “non-libertà”, proprio attraverso processi e meccanismi tesi a persuadere gli individui di vivere nell’esatto contrario, ovvero in una società che rispecchi fedelmente il concetto dell’alta libertà e dell’alta cultura, così come concepito dall’Illuminismo.
Anche le conclusioni di Marcuse su un eventuale “cambio di passo” futuro che sovverta lo stato attuale della cose, non sono affatto banali: sebbene il “popolo” non possa più essere considerato un protagonista del mutamento sociale, il suo substrato (composto da reietti, sfruttati, perseguitati, disoccupati e disabili) porta il seme del cambiamento e di una “rivoluzione” gentile. Insomma, l’unica speranza, secondo il filosofo tedesco, viene riposta in quelle categorie sociali che, per scelta libera o obbligata, non fanno parte del sistema e lo combattono (consapevolmente o meno) dall’esterno: gli emarginati.